Nicoletta Averta Pittrice Arte

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Critica

Quando nel preparare la sua esposizione l'artista si è innamorata di quel nome, AYAM, che qualcuno incautamente le aveva suggerito, pensava trattarsi della parola MAYA scritta al contrario. Perché al contrario? Perché lei ne rovesciava coscientemente (e coscienziosamente) le coordinate storiche e le trasferiva entro orizzonti di tutt'altra pregnanza ideologica, formale ed estetica; orizzonti vale a dire moderni per quanto la modernità possa reinterpretare le scritture della storia. Ma ella, come tutti d'altronde a leggere quel titolo, s'ingannava.

AYAM è una forma forse pasticciata ma perfettamente legittima di scrivere all'inglese I am, io sono, dal momento che I (sempre in maiuscola, perbacco: siamo inglesi o americani, e l'orgoglio non ci fa difetto) si legge per l'appunto ai. Quindi Ai am, io sono. Ecco allora che l'artista non parla di altri: altre persone, altre epoche, altre civiltà, altri segni e scritture, altre annotazioni di quel gran taccuino dell'immaginario sociale entro il quale si scrive la storia. Parla di se stessa, come dovrebbe fare ogni vero artista: non perché solo così è vero, ma perché solo così, parlando di se stesso, riporta a un principio di verità ontologica ogni segno, ogni frase, ogni colpo di scalpello, ogni gesto quotidiano misurato sull'album di un ricordo che proprio in sé stesso si è fatto carne.

Verbum caro factum est, se il latino non m'inganna, detto di colui che ha dato la misura del tempo; Signum caro factum est, detto di colei che sta cercando di dare la misura dell'infinito. Operazione forse perdente alla lunga poiché l'infinito per definizione non ha misura; ma nel breve periodo unico e solo modo per rapportarsi, interfacciarsi con vocabolo più alla moda, a qull'altro universo di cui tutti parlano senza averlo mai visto né sentito né toccato né odorato, e neppure mangiato.

L'universo della storia, e attraverso la storia l'universo dell'arte. Storia come ricerca, nel senso proprio etimologico; e arte come denudamento, nel senso proprio dello svelamento: non davanti allo specchio impietoso dell'altrui sensibilità. Facile a dirsi, difficile a capire. Facile a dirsi, nell'esempio scelto dall'artista, perchè i MAYA, se è vero che proprio da qui sono partite le sue riflessioni, squadernano uno scenario impressionante. Senza doversi per forza rifare alle vecchie, quasi commoventi, riesumanze di un Van Hagen, basta oggi andare su internet e selezionare il motore di ricerca Google: per maya otteniamo 8.430.000 rimandi, per maya art 2.250.000, per maya architetture 620.000, e così via.
Magari si ripeteranno, e più di una volta, ma qualcuno ha mai provato ad accedere anche a un solo milione di siti che parlano, in maniera diretta o indiretta, di quest'oggetto? Forse, anzi senz'altro, non c'è tutto; ma c'è quanto basta per riempire pagine e pagine di note, osservazioni, commenti, critiche, richiami eruditi e non, insomma un vero universo di parole che non si fanno mondo, e neppure scenario, per la loro intrinseca casualità che non permette di livellarle a concetti. Ma ce n'è davvero per costruire testi, anche iconografici se si ha voglia e pazienza. L'artista ha proceduto in maniera diversa. L'altro da sè, quel suo speculare iconografico, l'ha dapprima costruito in forma quadrata; e dopo, solo dopo anche se lei pensa sia stato prima, ha visto che il quadrato era la chiave di lettura per penetrare in un altro universo che libri sapientemente stampati sapevano proporsi buoni interpreti del suo sogno. Il suo sogno: questo il punto.
Sogno di una utopia. o meglio dell'altra utopia, quella che ognuno si porta appresso e solo in circostanze tanto rare quanto felici riesce ad articolare in sintassi comunicative.

Il vitruviano homo ad quadratum, o forse ad circulum, insomma l'uomo che solo Leonardo ha saputo inscrivere in una sinossi iconica capace di sfidare i secoli e i millenni, lo stesso che possiamo accarezzare con i polpastrelli ben rilevato sulle nostre monete da un euro, è l'uomo che che l'artista ha cercato di rappresentare in diversa iconologia. Uomo quadrato perchè razionale: il quadrato non esiste in natura, è frutto di ragione perché la proprietà di uguaglianza dei lati solo la conoscenza non istintiva, appunto la ragione, può suggerire. Un uomo rotondo perché naturale: il cerchi basta guardarselo nel cielo ogni ventotto giorni o giù di lì senza aver bisogno di pensarlo. Il cerchio è lei, l'artista, la natura fatta carne e sentimento. Il quadrato, o doppio quadrato a rettangolo quasi aureo, è la sua opera, dove inscrive, e circoscrive, non il ricordo dei MAYA reinterpretati alla luce della sua utopia, ma sé stessa depurata di quanto il chiacchiericcio del mondo circostante giorno dopo giorno ci deposita addoso finché alla fine non vediamo più nulla: né quadrati, né cerchi, né MAYA e neppure opere d'arte.

Queste terrecotte quadrate, queste tele spoglie di cornici ma ricche di sapienti accostamenti cromatici e formali, queste suggestioni d'altri mondi vogliono per certo rapportarci, e farci amare, il nostro mondo. Opera che per un'artista, specie se donna, rappresentare non già un obbiettivo raggiunto ma l'inizio per ogni futuro obbiettivo.

Prof. Ilario Principe

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